Nel cinquantennio di pace che intercorre tra Roma capitale e la prima guerra mondiale, l’esercito, e con esso la cavalleria, si appresta a completare la sua unificazione, trasformandosi da piemontese a italiano. Prima di entrare nel settore strettamente militare appare confacente una breve digressione nel mondo della “belle epoque”.
Epoca di grandi eventi in cui arte, scienza e tecnologia si sono unite, contribuendo al progresso, senza pervenire agli attuali inquinamenti.
E non è un riferimento limitato a quelli atmosferico-ambientali, ma esteso al campo spirituale perché in quell’epoca seducente ed affascinante, sono tenuti in grande considerazione valori morali oggi in largo disuso, quali l’onore, la cortesia, il senso del dovere. Bella epoca, appellativo indovinato perché è senz’altro un periodo di splendore che dura cinquant’anni fino alla tragedia di Sarajevo.
Quando una realtà tragica fa riemergere il senso della morte, annullando la bellezza, la giovinezza, la gioia di vivere e dando inizio ad una noiosa, barbosa tremenda serietà in cui si innesta la decadenza del mondo occidentale.
Inizia così col tramonto della bella epoca quella serie di cedimenti e di compromessi che hanno portato l’attuale genere di vita, con i barbari nuovamente alle porte, con i pentiti di ogni genere di delitto, comune o politico, all’interno della stessa società.
Vi è da chiedersi ove sono finiti l’allegra spensieratezza, le bellezze del fascino maliardo, lo splendore delle rutilanti uniformi. Per dirla con il poeta sono divenuti l’ombra del sogno fuggente perché inceneriti dalle infuocate fornaci dei due conflitti mondiali e poi definitivamente annegati nelle miserie del materialismo consumista di massa.
Nel 1870-71 avviene una importante riforma, detta Ricotti, dal nome del ministro della guerra. che apporta sostanziali innovazioni ordinative. uniformologiche e addestrative per l’esercito e la cavalleria, non ultime le stellette, simbolo di disciplina e di orgoglioso status militare. Dal 1887 al 1897 la cavalleria invia in Africa alcuni reparti e numerosi ufficiali, sottufficiali e uomini di truppa di varie unità, che concorrono alle operazioni in Eritrea, ove comincia a formarsi la cavalleria indigena, le famose “penne di falco”, dal simbolo posto lateralmente al copricapo, denominato “tarbusc”.
Alla fine dell’Ottocento i reggimenti di cavalleria sono ventiquattro (dieci armati di lancia, quattordici cavalleggeri).
Malgrado il potenziamento dovuto agli impegni presi con la triplice alleanza si costituiscono soltanto due reggimenti nel 1883 ma debbono trascorrere altri 4 anni (1887) per costituirne altri due. Soltanto i primi quattro mantengono l’elmo; gli altri dal 1872 sostituiscono il kepì con il colbacco di pelo di foca su cui è inserita una penna d’aquila per gli ufficiali, di corvo per la truppa. Nella guerra italo-turca del 1911-1912, ove la cavalleria indossa il celebre grigioverde da poco istituito (1909), sono presenti il comando della VII brigata, quattro comandi di reggimento e di gruppo e diciassette squadroni, tra cui si segnalano quelli di “Lodi” a Henni Bu Meliana e a Monterus Nero (che si guadagnano due medaglie d’argento allo Stendardo) e “Piacenza”. Si formano in seguito i “savari”, gli “spahis” e i “meharisti”, la cavalleria coloniale della Libia.
Alla vigilia della prima guerra mondiale si raggiunge il massimo storico di trenta reggimenti, di cui sei costituiti tra il 1909 ed il 1915: dodici di dragoni e lancieri, diciotto di cavalleggeri.
Di essi, sedici reggimenti costituiscono quattro divisioni di cavalleria, ognuna delle quali consta di una brigata di lancieri ed una di cavalleggeri; gli altri fanno parte, quali supporti. detti allora truppe suppletive, dei corpi d’armata. Nell’ambito ordinativo si deve osservare come l’esercito italiano abbia sempre difettato di supporti ed in particolare di cavalleria, artiglieria e genio il cui aumento ha formato costante preoccupazione di vari legislatori e ministri della guerra, ma la “politica della lesina” ha sempre prevalso. penalizzando soprattutto le armi più costose, quali appunto quelle citate. Ne consegue la considerazione che in tutte le epoche, la consistenza organica della cavalleria, sia in rapporto alle altre armi del proprio esercito sia in rapporto alle cavallerie di altri eserciti è sempre molto inferiore. Tra il 1871 ed il 1914, ossia nell’epoca d’oro dell’Arma, le percentuali di raffronto tra la forza della cavalleria e quella totale dei principali eserciti europei, per l’Italia risultano in ogni epoca le più basse.
Dopo queste aride ma significative cifre perché meravigliarsi se accadono i disastri di Custoza, Adua o Caporetto dove la cavalleria avrebbe potuto rendere preziosi servizi e dove invece o è assente o è impiegata male o è numericamente insufficiente e inadeguata.
Questa generale carenza di cavalleria è effetto determinante delle principali, brucianti sconfitte del nostro esercito, puntualmente rinfacciate all’ esercito stesso dall’opinione pubblica. Ma di ciò tratteremo più avanti, perché l’argomento assume rilevanza anche nelle successive campagne di guerra e nelle due guerre mondiali di cui vedremo tra poco le vicende. Alla fine del XIX secolo – inizio del XX la cavalleria è impegnata anche nell’equitazione come fatto sportivo ed agonistico, oltre che militare.
E’ forse il caso di precisare che il primo aspetto non è separato da quello più propriamente operativo: la capacità di controllare il vigore e la volontà del cavallo è una condizione di fondamentale importanza tanto per la riuscita del salto di un ostacolo quanto per il favorevole esito di una carica contro il nemico. Uno sport in cui la cavalleria italiana non è seconda a nessuno, vantando anzi tra le sue fila nomi celebri, primo fra tutti Federico Caprilli. Come ben si sa, egli ha letteralmente rivoluzionato la tecnica del salto a cavallo, adattando il cavaliere al cavallo e non il contrario come, sulla scia della scuola austro-francese. si faceva prima di lui, ed ottenendo successi ed affermazioni, per sé e per i suoi seguaci, anche odierni, in numerosissime manifestazioni nazionali ed internazionali.
Il quadro si completa con un cenno alla Scuola di Cavalleria, casa-madre dell’Arma, che nata nel 1823, rifondata nel 1849 a Pinerolo, raggiunge la fama di vera fucina equestre con l’istituzione dell’equitazione di campagna di Tor di Quinto. Dopo Caprilli la nomea della scuola varca i confini nazionali e ben 33 eserciti esteri inviano i propri ufficiali a frequentare i corsi di Pinerolo, per cui sono 141 gli allievi stranieri che imparano la “monta” italiana.
Ma dalla Scuola di Cavalleria non si esce solo esperti cavalieri, si esce anche soldati, dalla forma esasperatamente curata, che non è snobismo perché accoppiata alla capacità di sacrificio dimostrata nel corso delle campagne di guerra, come vedremo anche nei capitoli successivi. Oltre alle operazioni in territorio nazionale per le guerre d’indipendenza e a quelle coloniali la cavalleria partecipa anche ad altre operazioni oltremare che sono riepilogate brevemente nello schema sottostante.